MA NON SIAMO I COLPEVOLI
Paolo Mosanghini, vicedirettore del Messaggero Veneto, ha al suo attivo un’intensa partecipazione alla vita del giornale friulano dove ha sempre ricoperto ruoli di primissimo piano, dalla cronaca al vertice del giornale. È anche protagonista della vita culturale del Friuli Venezia Giulia. È autore di reportage speciali e di saggi. Ha pubblicato nel 2017 il libro “(S)badanti. Le peripezie di Ludmilla e nonna Rosa. Cosa succede quando in casa serve aiuto”. Importante il suo impegno negli organismi rappresentativi di categoria dei giornalisti.
L’intelligenza artificiale riuscirà a rimpiazzare il lavoro
giornalistico? Speriamo di no, anche se in alcune fasi della nostra professione il contributo dell’intelligenza scientifica è davvero molto prezioso. Lo è nei collegamenti, nelle ricerche web, aiuta a costruire link e creare data base.
Diavolerie, si direbbe, che riconoscono pure le voci e che
mettono in audio pezzi scritti con l’intonazione dell’autore, miscelando le parole.
L’intelligenza artificiale applicata al nostro lavoro, se ci pensiamo, non è paragonabile a quel che avviene se applicata alla medicina.
Nella Medicina, infatti, si moltiplicano in tutti gli ambiti, dalla diagnostica alla chirurgia alla riabilitazione, passando per lo sviluppo dei farmaci. Come è stato per tutte le tecnologie: dai Raggi X siamo arrivati alle radiografie, dalle riabilitazioni alle diagnosi alla chirurgia. L’elenco degli esempi è lungo: la medicina è uno dei domini in cui spesso le tecnologie sperimentali sono diventate strumenti a servizio della clinica. Lo stesso sta succedendo con l’intelligenza artificiale.
Questi mesi di lockdown ci hanno insegnato ad avere un’attenzione forse mai avuta prima nei confronti della sanità, mettendo in evidenza luci e ombre, limiti e pregi.
In questo percorso l’intelligenza artificiale è stata fondamentale per incrociare dati e contribuire a dare interpretazioni, a capire gli andamenti del fenomeno, tuttavia non sono mancate, come si diceva, le ombre.
Proviamo a enucleare alcuni di questi pericoli.
Incrociare i dati epidemiologici, studiare pattern, cercare correlazioni, localizzare e magari prevedere nuovi focolai: ecco come l’intelligenza artificiale è stata schierata in campo nella lotta al coronavirus. Fin dall’inizio del contagio, istituzioni e governi di tutto il mondo hanno promosso l’apertura di “archivi” dove raccogliere articoli scientifici,
dati e analisi sull’andamento dell’epidemia.
Nel mondo ogni stato si è mosso a modo suo.
Negli Stati Uniti è nato Covid-19 Open Research Dataset, la più vasta raccolta di pubblicazioni scientifiche relative alla pandemia del coronavirus, un esperimento voluto dalla Casa Bianca che ha chiamato a raccolta università e imprese hi-tech.
In Europa è stata varata una piattaforma di dati sul Covid-19 per consentire una raccolta rapida e un’ampia condivisione dei dati di ricerca disponibili.
In Cina fin da subito è stato lanciato un programma di lotta alla Covid-19 basato sull’intelligenza artificiale, anche perché - inutile ricordarlo - la Cina non è l’Europa. Infatti, forte di una normativa sulla privacy ben diversa di quella vigente in Europa e di una organizzazione della società più centralizzata nella raccolta di dati, il Governo asiatico si è speso su questo fronte e ha potuto fin da subito usare l’intelligenza artificiale, ad esempio per controllare il rispetto delle misure di quarantena e per individuare i soggetti potenzialmente positivi o per studiare algoritmi
predittivi che permettano di tracciare l’evoluzione dell’epidemia o facilitare la ricerca di nuovi farmaci e vaccini.
Siamo sicuri che quello che è avvenuto per tenere sotto controllo il Covid sia sempre stato in linea con quanto concerne la nostra professione?
Metodi di raccolta dei dati inquinano la qualità dell’informazione e rendono fallaci i tentativi di ricerca di pattern. Tutti noi viviamo tra gli algoritmi dei social o di Amazon e ce ne lagniamo quando ci accorgiamo che la nostra intimità viene violata.
Perché dai dati che vengono forniti attingiamo a piene mani per costruire i nostri percorsi delle news, evidentemente ci fidiamo di chi ne sa più di noi. Tuttavia la categoria è finita sul banco degli imputati proprio perché ritenuta colpevole di aver dato notizie parziali. Non sempre per colpa della categoria ma per la mancata trasparenza dei dati.
In altre occasioni, invece, siamo finiti alla gogna per aver dato una notizia, certamente troppo presto, per esempio la fuga al Sud prima del lockdown. Ma siamo davvero noi i responsabili? E chi ha fatto trapelare deliberatamente la notizia? Chi ha chiamato i giornalisti per avvisarli?
E noi avremmo dovuto tacere di una notizia ormai ampiamente diffusa? Eticamente sì, giornalisticamente no
E dove ci processano? Sui social, la nuova “agorà” che mette tutti sullo stesso piano, professionisti acclamati assieme ai laureati all’università della vita.
Il nostro dovere di informazione è primario, sempre, ma soprattutto quando la salute pubblica è a rischio, come dinanzi a una pandemia.
Il nostro dovere è di coniugare questa necessità con l’etica professionale che deve manifestarsi come saldo elemento di ciò che viene pubblicato. È soltanto così che la nostra categoria può ambire ad avere un ruolo e può esercitare il suo ruolo in modo inattaccabile.